La Chiesa e il martirio secondo Antonio di Padova
Una medicina nello zaffiro
In occasione della memoria liturgica di sant’Antonio di Padova (13 giugno) si è svolta nel Museo diocesano di Terni la giornata di studio “Dai protomartiri francescani a sant’Antonio di Padova” organizzata in collaborazione con la Scuola superiore di studi medievali e francescani. Pubblichiamo stralci di una delle relazioni.
di Mary Melone
Pontificia Università Antonianum
Il tema del martirio non è fra quelli più insistentemente ricorrenti nei Sermoni di Antonio di Padova e questo dato potrebbe forse sorprendere, di primo acchito, se lo si considera proprio in rapporto al significato così rilevante che l’incontro con i protomartiri francescani del Marocco ebbe per la vita di colui che era ancora il giovane Fernando.
In realtà questo stesso dato, per essere letto correttamente, va chiarito con due precisazioni: la prima, in riferimento all’opera dei Sermonesin sé, la seconda relativa alla trattazione specifica che in essi viene riservata al martirio. L’approccio al testo dei Sermones di Antonio, infatti, non può prescindere dalla consapevolezza della loro finalità e dei caratteri che tale finalità conferisce all’insieme dell’opera. Nati, per così dire, dall’insistenza dei suoi confratelli e scaturiti dal desiderio di fornire loro un testo capace di garantire un’adeguata formazione, iSermones si offrono a noi non come una raccolta di prediche effettivamente pronunciate dall’autore negli anni della sua intensa e feconda attività di predicazione, quanto piuttosto come un trattato composto per proporre in abbondanza, ai futuri predicatori dell’ordine, materiale adatto a raggiungere il cuore e la vita dei loro ascoltatori, a qualunque condizione o stato di vita appartenessero.
Un testo per la formazione. In questo Antonio rivela la sua sentita adesione a quell’anelito di riforma della Chiesa che aveva spinto il concilio Lateranense iv, già nel 1215, a richiamare i vescovi al dovere della predicazione, all’impegno di avvicinare i credenti alla Parola di Dio, quella stessa Parola che, spesso negata al popolo dai ministri sacri per ignoranza, veniva invece impugnata con vigore dai movimenti ereticali, che su di essa fondavano l’esigenza e la rivendicazione di un rinnovamento evangelico delle istituzioni.
Antonio recepisce l’urgenza di questa riforma, così come comprende il bisogno delle nuove generazioni di frati di essere avviati a un’evangelizzazione efficace nei contenuti come anche nella forma, perché i destinatari della predicazione erano sempre più sofisticati – scrive ironicamente l’autore nel prologo – segno evidente del cambiamento in atto nell’ordine francescano, chiamato a confrontarsi sempre più frequentemente con gli ambienti della borghesia cittadina. Perciò i Sermones vengono pensati come un opus evangeliarum, vale a dire come un’opera di commento all’intera Scrittura, secondo la scansione dell’anno liturgico e delle sue maggiori festività. Antonio commenta le letture della messa accostandole a quelle dell’ufficio notturno e all’antifona di introito; il metodo della concordanza e la sua straordinaria conoscenza della pagina biblica gli consentono di collegare con stupefacente facilità brani tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento; il commento strutturato attraverso la ricerca dei vari livelli di senso che sono contenuti nella Parola di Dio – letterale, allegorico, morale e anagogico – gli permette di attingere continuamente dalla Scrittura, con indiscutibile ricchezza e diversità di accenti, un accesso alla conoscenza del mistero di Cristo (senso allegorico), un itinerario concreto per la conversione dell’uomo (senso morale) e un’indicazione pacificante per il compimento dell’esistenza umana nell’eternità di Dio (senso anagogico).
Su questo sfondo, pertanto, va inserito il tema del martirio: Antonio se ne occupa all’interno della sua preoccupazione fondamentale per la predicazione, per una predicazione, anzi, in grado di spingere alla conversione, alla penitenza, all’assunzione responsabile della logica evangelica. Il martirio si lega a questa fondamentale preoccupazione proprio nella misura in cui esprime l’impegno nella penitenza del singolo credente e indica la forza dell’adesione al vangelo su cui si fonda la sussistenza stessa della Chiesa. Perciò, e siamo alla seconda precisazione, l’apparente scarsità di riferimenti testuali al tema del martirio non incide sul significato indubbiamente pregnante che esso assume nella totalità dei Sermones.
Il testo che inaugura nel sermonario antoniano la serie di brani dedicati al martirio si trova nel sermone per la domenica di settuagesima, dove l’autore propone una corrispondenza tra i sette giorni della creazione e i sette articoli di fede. Il passo del libro della Genesi riferito al terzo giorno: “la terra germogli erba verdeggiante”, viene interpretato in senso allegorico con un riferimento a Cristo: la terra che germoglia è infatti il suo corpo, offerto in sacrificio. La fecondità di questo sacrificio è tale per Antonio che egli amplifica il testo aggiungendo all’erba verdeggiante, simbolo degli apostoli, anche il seme della predicazione dei martiri e l’albero ricco di frutti che è la vita dei confessori e delle vergini: tutto germoglia dal dono che Cristo ha fatto di sé.
I martiri compaiono già in questo primo brano come una categoria ben delineata, accanto ad apostoli, confessori e vergini, e tuttavia l’accenno al seme della loro predicazione contiene un aspetto singolare, che sembra richiamare la nota espressione di Tertulliano: sanguis martyrum semen christianorum, evocando con efficacia la forza persuasiva del loro esempio, il valore fecondo della loro testimonianza che assume la forma di una convincente predicazione: “seme della predicazione”, secondo Antonio.
La coerenza con il genere letterario dei Sermones, di per sé estraneo a ogni discorso speculativo, come anche a ogni approfondimento teorico degli argomenti toccati via via nel commento della Scrittura, impedisce ovviamente di trovare nelle pagine di Antonio una riflessione sistematica sulla figura del martire e sul senso ecclesiale del martirio, ma questa lacuna viene compensata dall’utilizzo di immagini luminose che ne traducono ugualmente il valore, e riflettono l’importanza che essi rivestono nella coscienza credente dell’autore. Tra queste immagini, un ruolo particolare va riconosciuto alle pietre preziose, con cui il testo tenta di esprimere proprio la nobiltà attribuita ai martiri.
Innanzitutto lo zaffiro: nel sermone per la ii domenica di quaresima, lo zaffiro raffigura la Chiesa, opera meravigliosa compiuta da Cristo con la sua incarnazione. I quattro ordini in cui essa si articola vengono paragonati alle quattro proprietà dello zaffiro che sono: la capacità di mostrare in sé una stella e quella di eliminare la malattia del carbonchio, la sua somiglianza con il cielo sereno e il suo potere di fermare il sangue. Nella corrispondenza tra queste quattro proprietà e gli apostoli, le vergini, i confessori e i martiri, a questi ultimi viene associata la capacità di far scomparire il carbonchio: questa proprietà – scrive Antonio – “è figura dei martiri, che con il loro martirio hanno sconfitto la malattia mortale dell’idolatria”. La loro testimonianza è dunque una professione di fede nell’unicità di Dio e nella sua signoria contro ogni falso idolo, ed è proprio questa testimonianza uno dei fondamenti su cui si regge la Chiesa.
Quando dal tema dei martiri si passa a considerare l’impiego del termine martirio, ci si trova dinanzi a uno scenario totalmente diverso, sostanzialmente privo di quella ricchezza di immagini e di figure con cui Antonio ha tratteggiato la presenza dei martiri nella Chiesa.
Le diverse immagini con cui Antonio presenta nell’insieme dei suoi Sermoni i martiri e il martirio rivelano il suo radicarsi nella tradizione di fede della Chiesa. Il santo di Padova non aveva certo interesse a proporre dottrine teologiche innovative o a entrare nel vivo delle dispute scolastiche del suo tempo, e tuttavia al di sotto dell’essenzialità con cui i temi vengono da lui affrontati, affiora sempre nella trattazione la solidità della sua formazione, la sua lucida conoscenza dell’insegnamento della Chiesa. Non sorprende, allora, l’insistenza con cui il martirio è legato alla fede e alla fedeltà a Cristo, perché tale insistenza riflette appunto ciò che la Chiesa ha sempre proclamato celebrando i suoi martiri: solo a motivo della fede viene inflitto il martirio e solo per fedeltà e amore a Cristo viene affrontato dal martire.
Eppure, proprio in questo riproporre la visione tradizionale del martirio, si possono distinguere con chiarezza alcuni aspetti che riportano al vissuto di Antonio, al suo impegno di evangelizzazione secondo lo spirito evangelico voluto da Francesco. In modo particolare, questi aspetti sono legati al riferimento ecclesiale dei martiri, al loro essere ripetutamente presentati come uno dei fondamenti della vita della Chiesa. Non sarà certo passato inosservato l’uso del binomio “Chiesa militante e Chiesa trionfante” che spesso torna nel sermonario antoniano. Si tratta di una distinzione che, affacciatasi agli inizi del dodicesimo secolo, nel tempo di Antonio tendeva a sostituire quella platonizzante di origine agostiniana, in cui si parla di una Chiesa terrestre “peregrinante” riflesso di quella “celeste”.
In realtà, nei Sermoni è evidente la fedeltà dell’autore alla visione ecclesiologica agostiniana: la Chiesa è una e vive contemporaneamente due forme di esistenza, quella pellegrinante sulla terra e quella definitiva nei cieli. L’adozione del nuovo linguaggio, “militante e trionfante”, va ricondotta piuttosto a un’altra finalità, che consiste nell’invito alla coerenza della vita cristiana: attraverso l’immagine della militanza, egli richiama insistentemente alla consapevolezza di una lotta contro la logica del mondo, una logica che si riassume frequentemente nei Sermoni nel dominio dell’avarizia, della superbia e della lussuria. Da qui dunque il passaggio dalla Gerusalemme celeste e terrestre, che è la Chiesa, a quella Gerusalemme particolare che è l’anima del singolo credente, dove si decide e si consuma realmente il suo essere parte della Chiesa.
da: L’Osservatore Romano 14-15 giugno 2010